Le violenze impunite del lager Bolzaneto

C’ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo
ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri
l’hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione
dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini
compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti,
carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali,
ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell’amministrazione
penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai
"prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di
sedersi. Distribuiva la bottiglia dell’acqua, se ne aveva una a
disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di
passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon
cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo
a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto
a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia
di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a
55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi
e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli,
greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre
statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche
professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I
pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati
hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio
prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è
andato molto vicini", ma l’accusa si è dovuta dichiarare impotente a
tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la
testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il Parlamento non ha
trovato mai il tempo – né avvertito il dovere in venti anni – di
adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani,
alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro
Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d’uso corrente da gettare in
faccia agli imputati: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro
arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre
anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe
che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della
prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto
scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio,
possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né,
contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte
in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di
dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che
pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di
trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci
è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta – 1225 – c’era scritto: "Nessun uomo libero
sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo
fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo
mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo
la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all’articolo 13
si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza
fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di
libertà"

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un’accorta
gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna",
modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità
cittadine, civili, militari, religiose coltivando l’idea di farne un
"Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C’è un
campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri"
accompagnavano l’arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni,
calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo?
Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov’era il famigerato "ufficio matricole" c’è ora una cappella
inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001
risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una
biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume
italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato
la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l’ambiente è diverso e il clima di
piombo. Dopo il cancello e l’ampio cortile, i prigionieri sono sospinti
verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o
quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il
garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra,
due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è
costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto
chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se
stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei
figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto…". A
un’altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli.
Anche H. T. chiede l’avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D.
si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto.
Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è
accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti
hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima,
perquisiti – gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra – e
denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per
accertare la presenza di oggetti nelle cavità".

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre
giorni e i numeri che si raccolgono – 55 "fermati", 252 "arrestati" –
sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella
struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di
entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" – prima del
trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera –
è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte
tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati
all’ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde)
sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un
gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di
attesa". La "posizione del cigno" – in piedi, gambe divaricate, braccia
alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di
quei giorni, nell’attesa di poter entrare "alla matricola". Superati
gli scalini dell’atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella
palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In
ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la
schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi
alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle
donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un
gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o
ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia
penitenziaria". C’è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui
genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere
le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C’è
chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo
spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare
nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli
fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo
minacciano "di rompergli anche l’altro piede". Poi, gli innaffiano il
viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C’è
chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non
picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli
viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del
martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in
piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli
ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora,
un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?".
S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A.
F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare
pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte".
S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a
denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo
obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia
penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con
sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a
spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti
alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la
testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli
agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la
schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina.
C’è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi,
minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie
perquisizioni, una della polizia di Stato, l’altra della polizia
penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a
restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia
penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le
operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing
venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a
rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a
quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute
offensive, le risate, gli scherni. P.

B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la
perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne
fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un’agente donna gli si
avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in
infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al
necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte.
Il peggio avviene nell’unico bagno con cesso alla turca, trasformato in
sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i
prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all’accompagnatore. Che
sono spesso più d’uno e ne approfittano per "divertirsi" un po’.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di
assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale
appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una
maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta.
L’accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra.
E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al
bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la
insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le
dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti
piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano
allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì,
nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria
perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un’obiezione. Anche
il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e
spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della
mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella
cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il
suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per
la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice
bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei"
con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini,
"indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue.
Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno
preparando un’iniezione. Chiede: "Che cos’è?". Il medico risponde: "Non
ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo
medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo
trasferiscono a Bolzaneto. All’arrivo, lo picchiano contro un muretto.
Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c’è un carabiniere morto. Un
poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani.
Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all’osso". G.
A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza
anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno
straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava
accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno
omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel
trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c’è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia
dell’estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le
pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento,
però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E
raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella
sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la
dignità della persona e i suoi diritti. È un’osservazione che già
dovrebbe inquietare se non fosse che – ha ragione Marco Revelli a
stupirsene – l’indifferenza dell’opinione pubblica, l’apatia del ceto
politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono
macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose
delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare – le istituzioni dello Stato, chi le
governa, chi ne è governato – che per settantadue ore, in una caserma
diventata lager, il corpo e la "dimensione dell’umano" di 307 uomini e
donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero
far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri
vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso
cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia
alla coerenza"?

 di GIUSEPPE D’AVANZO

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