pulizia etnica a ponticelli

In motorino con le molotov «È la nostra pulizia etnica»

Le bande di incendiari partono dal fortino del boss

NAPOLI — All’inizio è soltanto una colonna di fumo, un segnale che
nessuno collega allo sciame di motorini che attraversano sparati
l’incrocio di via Argine, due ragazzi in sella a ogni scooter.

L’esplosione arriva qualche attimo dopo, sono le bombole del gas
custodite in una baracca avvolta dal fuoco. Le fiamme arrivano fino
all’estremità dei pali della luce, il fumo diventa una nuvola nera e
tossica, gonfia com’è di rifiuti e plastica che stanno bruciando. Le
baracche dei Rom di via Malibrand sono un enorme rogo.

Ponticelli, ore 13.30, la resa dei conti con gli «zingari» è
definitiva, senza pietà. Il traffico che impazzisce, il suono delle
sirene, i camion dei pompieri, carta annerita che volteggia nell’aria,
i poliziotti di guardia all’accampamento che si guardano in faccia,
perplessi. Loro stavano davanti, quelli con il motorino sono arrivati
da dietro. Allargano le braccia, succede, non è poi così grave, tanto i
rom se n’erano andati nella notte. «Meglio se c’erano», si rammarica un
signore in tuta nera dell’Adidas. «Quelli dovrebbero ammazzarli tutti».
Parla dall’abitacolo della sua Punto, in bella evidenza sul cruscotto
c’è un santino, «Santa Maria dell’Arco, proteggimi».

Il primo spettacolo, perché ce ne saranno altri, va in scena davanti
alla Villa comunale, l’unica oasi verde, con annessa pista ciclabile,
di questo quartiere alla periferia orientale di Napoli, dove
l’orizzonte è delimitato dalle vecchie case popolari figlie della
speculazione edilizia voluta da Achille Lauro. Un uomo brizzolato con
un giubbotto di jeans sulle spalle è il più entusiasta. «Chi fatica
onestamente può anche restare, ma per gli altri bisogna prendere
precauzioni, anche con il fuoco». Il fuoco purifica, bonifica il
terreno «da queste merde che non si lavano mai», aggiunge un ragazzo
con occhiali a specchio, capelli impomatati, maglietta alla moda con il
cuore disegnato sopra, quella prodotta da Vieri e Maldini. Siccome non
c’è democrazia e lo Stato non ci protegge, dice, «la pulizia etnica si
fa necessaria» e chissà se capisce davvero il significato di quella
frase.

Quando si fanno avanti le televisioni, la realtà diventa recita, si
imbellisce. Il donnone con la sporta della spesa che un attimo prima
batteva le mani e inveiva contro i pompieri — «lasciateli bruciare,
altrimenti tornano»—assume di colpo la faccia contrita, Madonna mia che
disastro, poveracci, meno male che là dentro non ci stanno le creature.
Il ragazzo con gli occhialoni a specchio diventa saggio all’improvviso:
«Giusto cacciarli, ma non così». La telecamera si spegne, lui scoppia a
ridere. Sotto a un albero dall’altra parte della strada c’è un gruppo
di ragazzi che osserva la scena. Guardano tutto e tutti, nessuno li
guarda. Sembrano invisibili. I loro scooter sono parcheggiati sul
marciapiede. Il capo è un ragazzo con una maglietta nera aderente, i
capelli tagliati cortissimi ai lati della testa. Tutti i presenti sanno
chi è, ne conoscono con precisione il grado e la parentela. È uno dei
nipoti del cugino del «sindaco » di Ponticelli, quel Ciro Sarno che
anche dal carcere continua ad essere il signore del quartiere, capo di
un clan di camorra che ha fatto del radicamento nel quartiere la sua
forza. Quando vede che la confusione è al massimo, fa un cenno agli
altri. Si muovono, accendono i motorini. Dieci minuti dopo, dal campo
adiacente, quello di fronte ai palazzoni da dodici piani chiamati le
Cinque torri, si alza un’altra nuvola di fumo denso e spesso.
L’accampamento è delimitato da una massicciata di rifiuti e copertoni.
Sono i primi a bruciare, con il fumo che avvolge le case popolari. La
claque si sposta, ad appena 200 metri c’è un nuovo incendio da
applaudire. I ragazzi in motorino scompaiono.

La radio di una Volante informa che ci sono fiamme anche nei due campi
di via Virginia Woolf, al confine con il comune di Cercola. Sul prato
bagnato ci sono un paio di rudimentali bombe incendiarie. I rom sono
scappati in fretta. Nelle baracche ci sono ancora le pentole sui
fornelli, gli zaini dei bambini. All’ingresso di una di queste
abitazioni in lamiera e compensato, tenute insieme da una gomma
spugnosa, c’è un quadro con cornice che contiene la foto ingrandita di
un bimbo sorridente, vestito da Pulcinella. Florin, carnevale 2008, la
festa della scuola elementare di Ponticelli. Alle 14.50 comincia a
diluviare, una pioggia battente che spegne tutto. «Era meglio finire il
lavoro», dice un anziano mentre si ripara sotto ad una tettoia della
Villa comunale.

Mezz’ora più tardi, nel rione De Gasperi si vedono molte delle facce
giovani che salivano e scendevano dai motorini. È il fortino dei Sarno,
un grumo di case cinte da un vecchio muro, con una sola strada per
entrare e una per uscire, con vedette che fingono di leggere il
giornale su una panchina e invece sono pagate per segnalare chi va e
soprattutto chi viene. Ma questa caccia all’uomo non si spiega solo con
la camorra. Sarebbe persino consolante, però non è così.

Sotto al cavalcavia della Napoli-Salerno ci sono gli ultimi tre campi
Rom ancora abitati. Dai lastroni di cemento dell’autostrada cadono
fiotti di acqua marrone sulle baracche, recintate da una serie di
pannelli in legno. Un gruppo di donne e ragazzi che abita nelle case
più fatiscenti, quelle in via delle Madonnelle, attraversa la piazza e
si fa avanti. «Venite fuori che vi ammazziamo», «Abbiamo pronti i
bastoni». La polizia si mette in mezzo, un ispettore cerca di far
ragionare queste donne furenti. Siete brava gente, dice, la domenica
andate in chiesa, e adesso volete buttare per strada dei poveri
bambini? «Sììììì» è il coro di risposta.

Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un
foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e paura. Quasi per
proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle
donne più esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di
pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del
male ». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la
rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce in faccia la bambina.
L’ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con
lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima».
Avanti verso il Medioevo, ognuno con il suo passo.

Marco Imarisio

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