la fiat di Pomigliano è bloccata

Diffondi a mass media, tv, giornali, amici, siti blog, liste: rompiamo il muro del silenzio.

COMUNICATO STAMPA

Napoli, 15 aprile 2008

A partire da Giovedì 10 aprile alle ore 22 la fiat di Pomigliano è bloccata.

Un comitato operaio costituito indipendentemente dalle appartenenze sindacali ha organizzato la mobilitazione.

Fino a domenica i picchetti operai hanno permesso uno sciopero con adesione del 99%.

Da lunedì 14 aprile si è deciso di bloccare solamente i varchi merci, per fare sì che la fabbrica sia costretta a fermarsi.

La vertenza riguarda 316 operai, ritenuti “scomodi” dall’azienda, la
quale ha deciso di esternalizzarli al polo logistico di Nola, da tutti
ritenuto l’anticamera del licenziamento.

In gioco vi è però il futuro di tutti gli operai della fabbrica, i
quali non hanno nessuna garanzia sul loro avvenire lavorativo.

I blocchi dei camion continueranno ad oltranza fino all’avvenuto riassorbimento dei 316 all’interno del perimetro aziendale.

E’ necessario che tutti sostengano e vengano a portare solidarietà
ai lavoratori che, 24 ore su 24, stanno picchettando l’azienda.

TV, Media e giornali non ne parlano perchè la FIAT non vuole che se
ne parli: diffondiamo la notizia.Perdere questa battaglia, nella più
grande fabbrica del meridione, significa condannare alla miseria ed
alla disoccupazione migliaia di famiglie

Vincerla vorrebbe dire, invece, dare una significativa risposta al
progressivo impoverimento, al disorientamento ed alla precarietà ai
quali tutti i lavoratori sono sottoposti oggi.

 tratto da www.internazionalisti.it

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cinque minuti

No, no, non pensare in quel modo, non giocare con quel corpo, no, no.
Bevuto e fumato, entrato in macchina eri invincibilmente debole, pensavi alle falsita’ di una
citta’ industriale, ti raccontavi il sogno strano di inseguire con la mano un
orizzonte sempre piu’ lontano. Si partiva, voglia irrefrenabile di quei 5
minuti di superiorita’ esteriore mostrata sotto la cintola. Eri li’ in quella
confusione ormonale scandita da punte di ottima house pigalliana, che
ribolliva in te con ritmi pupillari condotti da luci markoviane.

Ed ecco giunto il termine dello sballo… 

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Quell´italiano sul Granma

La malinconia dell´addio di Gino Doné. È morto a San Donà del Piave. Le
ultime immagini mostrano un signore a passeggio sull´argine della città
veneta beato come quando frugava la sabbia delle spiagge della Florida
alla ricerca di denti di pescecane. Quei denti che gli ami dei
cacciatori strappavano alla preda. Stivali, cappello con visiera, barba
alla Hemingway e una maglietta segnata dal nome «Granma». Proprio la
barca di Fidel e del Che, traversata avventurosa dal Messico con la
speranza di rovesciare la dittatura di Battista. Impresa alla quale 82
utopisti si erano associati, impresa incredibilmente riuscita.

Ma il Doné che aveva salvato il Che folgorato dall´asma nelle
ore dello sbarco ritrascinandolo nel plotone di comando, 2 dicembre
1956; quel Gino Doné sorridente e sicuro non ce l´ha fatta ad entrare
all´Avana accanto all´amico del cuore: Ernesto. Lo ha sempre chiamato
Ernesto nei primi incontri che ci hanno riunito in Florida quando l´ho
ripescato, nove anni fa, assieme al fotografo Pigi Cipelli. «Il Che è
venuto dopo. Lo hanno inventato gli altri», si arrabbiava. «L´uomo che
mi incantava a Città del Messico era solo Ernesto. Il Che è stata una
bella invenzione dei cubani e dei giornalisti accorsi ad osservare come
avrebbero cambiato la storia i ragazzi al potere all´Avana; ma io
ricordo l´Ernesto che saltava la cena per sfamare una madre e tre
bambini gelati dall´inverno. Allungavano la mano sulla porta della
posada dove i pochi soldi consolavano malamente la nostra pancia vuota.
Ernesto spariva per riapparire trionfante: "stasera non ho fame".
Allora sono uscito: la donna e i bambini mangiavano. Allora sono
rientrato e ho preso Ernesto per il bavero inchiodandolo al muro:
giusto sfamare chi ha fame, ma il tuo impegno riguarda tutti noi e la
gente che a Cuba aspetta di vedere crollare Battista. Non rifarlo
più…».

Ma Ernesto lo ha rifatto. Ernesto malinconico per il matrimoni fallito
con la moglie peruviana; per Hildita, la figlia piccola scomparsa a
Lima assieme alla madre. Insomma l´Ernesto che con Gino Doné e un
volontario domenicano costituivano l´intera legione straniera della
spedizione del Granma. All´impresa del Granma Gino aveva preso parte
con la qualifica di «tenente della retroguardia» comandata da Raul.
Perché proprio a un italiano di 32 anni, il più vecchio della
spedizione, era stato affidato l´incarico di contenere l´inseguimento
dei militari di Battista? Ecco la prima parte di una vita irripetibile.

La seconda guerra mondiale sorprende Doné a Pola, nel tutti a
casa dell´8 settembre. Scappa. Torna a piedi a San Donà del Piave. A
piedi, sfuggendo i posti di blocco dei tedeschi. Ma i fascisti del suo
Veneto lo vanno a prendere in casa. Disertore da spedire in Germani a
meno che non accetti la divisa tedesca per dimostrare il pentimento.
Donè indossa i panni di Hitler e subito riscappa. Lo riprendono:
diventa carne da cannone da schierare ad Anzio per fronteggiare lo
sbarco alleato. Primissima linea per venti giorni così vicino agli
americani che dovrebbe uccidere e ai quali non spara, da ascoltarne i
discorsi ed innamorarsi della loro lingua. Terza fuga: sempre a piedi
attraversa l´Italia per tornare a San Donà. La campagna attorno era una
palude: i tedeschi l´avevano riallagata temendo uno sbarco americano.
Viene contattato dall´intelligence inglese e fino alla fine raccoglie e
imbarca su un sottomarino alleato che affiora a Caorle, piloti
britannici e australiani abbatuti nella pianura veneta e nascosti dai
contadini. Centro strategico la fattoria Argentin, padre di Moreno
Argentin, campione del pedale. Londra lo decora con una croce di
guerra, ma nel dopoguerra tornano le tasche vuote. Clandestino in
Francia, clandestino ad Amburgo, clandestino su una nave della Lauro
diretta all´Avana. Dove comincia a lavorare manovrando scavatrici per
aprire una strada verso Santiago de Cuba. Incontra la bella figlia di
un tabaquero, la sposa. Il tabaquero appartiene ai radicali ortodossi
che finanziano il Fidel in esilio a Città del Messico. Gino va e viene
con i dollari cuciti sotto la fodera della giacca. Nasce l´amicizia con
Castro il quale gli cucina perfino un piatto di spaghetti, ma è Ernesto
l´amico che ammira: comincia l´avventura. Finisce poco dopo lo sbarco.
Un´imboscata e Gino si salva a Santa Clara dove viene incaricato di
addestrare militarmente giovanissime maestre rurali. La prima allieva
si chiama Aleida March futura moglie del Che o di Ernesto, come
ricordava Gino. La prepara ad un attentato che non si farà. Poi
un´imboscata della polizia. Clandestino su una nave danese,sbarca a New
York dove comincia la terza vita. Imbianchino, ma anche Papillon. Va in
Colombia a cercare smeraldi, prova a scavar l´oro in Venezuela, si
tuffa fra i galeoni delle flotte tesoriere dell´impero spagno nella
speranza di pescare un tesoro.

Gli anni passano, sposa una signora di 14 anni più matura.
Diventa un pensionato squattrinato con problemi quotidiani che
annebbiano ogni passato. Un giorno rivede un amico cubano che lo
riporta all´Avana accolto dal tappeto rosso che Fidel riserva agli
ospiti speciali. Ma Fidel e Raul non hanno tempo per riceverlo. Ne
ascolto l´amarezza nella registrazione dei primi giorni d´intervista.
Lo accoglie Jesus Montané, barba rossa potentissimo nell´anticamera di
Fidel. Montané lo ascolta, si commuove e l´invita a tornare quando gli
impegni di stato lasceranno respirare i fratelli Castro.
Per Pigi Cipelli e per me che primi abbiamo ascoltato il racconto delle
sue tre vite è stata un´esperienza giornalistica insolita: dovevamo
ravvivare una memoria affogata nel tempo. Non c´era mai capitato. Gino
ricordava lentamente e quando un episodio usciva dall´oscurità della
memoria telefonava al nostro albergo, due passi dalla sua casetta:
«Sono le tre di notte, ma devo raccontarvi…». Qualche minuto e si
piegava sul registratore.

L´Italia ne ha scoperto l´avventura (più avventura che impresa
politica) attraverso i nostri servizi del Corriere della Sera e del
magazine Sette. È subito diventato un protagonista molto amato,
testimone di tante storie vissute con l´impegno di chi non sopportava
le ingiustizie: «Ernesto mi ha fatto capire tante cose…». In Italia
ci siamo parlati qualche volta, solo al telefono. Ogni volta ripetevo
il dubbio: «Hai ricordato proprio tutto?». Gino rideva: «Se vieni ti
dico il resto». Adesso, l´ultimo viaggio.

di Maurizio Chierici

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335 grida dalla cava

335 grida dalla cava che declamano ancora una giustizia che non potra’ mai piu’ esser data.

24 marzo 1944 la storia non si puo’ dimenticare.

 

  1. Agnini Ferdinando – Studente di medicina.
  2. Ajroldi Antonio – Maggiore del Regio Esercito.
  3. Albanese Teodato – Avvocato.
  4. Albertelli Pilo – Professore di filosofia.
  5. Amoretti Ivanoe – Sottotenente in servizio permanente effettivo.
  6. Angelai Aldo – Macellaio.
  7. Angeli Virgilio – Pittore.
  8. Angelini Paolo – Autista.
  9. Angelucci Giovanni – Macellaio.
  10. Annarumi Bruno – Stagnino.
  11. Anticoli Lazzaro – Venditore ambulante.
  12. Artale Vito – Tenente Generale d’artiglieria.
  13. Astrologo Cesare – Lucidatore.
  14. Aversa Raffaele – Capitano dei Carabinieri Reali.
  15. Avolio Carlo – Impiegato (S.A.L.B.)
  16. Azzarita Manfredi – Capitano di cavalleria.
  17. Baglivo Ugo – Avvocato.
  18. Ballina Giovanni – Contadino.
  19. Banzi Aldo – Impiegato.
  20. Barbieri Silvio – Architetto.
  21. Benati Nino – Banchista.
  22. Bendicenti Donato – Avvocato.
  23. Berardi Lallo – Manovale.
  24. Bernabei Elio – Ingegnere delle Ferrovie dello Stato.
  25. Bernardini – Commerciante.
  26. Bernardini Tito – Magazziniere.
  27. Berolsheimer Aldo – Commesso.
  28. Blumstein Giorgio Leone – Banchiere.
  29. Bolgia Michele – Ferroviere.
  30. Bonanni Luigi – Autista.
  31. Bordoni Manlio – Impiegato.
  32. Bruno Dl Belmonte Luigi – Proprietario.
  33. Bucchi Marcello – Geometra.
  34. Bucci Bruno – Disegnatore.
  35. Bucci Umberto – Impiegato.
  36. Bucciano Francesco – Impiegato.
  37. Bussi Armando – Impiegato delle Ferrovie dello Stato. strappato dai tedeschi dalla sua casa in via Savoia 72 a Roma a seguito di una delazione
  38. Butera Gaetano – Pittore.
  39. Buttaroni Vittorio – Autista.
  40. Butticé Leonardo – Meccanico.
  41. Calderari Giuseppe – Contadino.
  42. Camisotti Carlo – Asfaltista.
  43. Campanile Silvio – Commerciante.
  44. Canacci Ilario – Cameriere.
  45. Canalis Salvatore – Professore di lettere.
  46. Cantalamessa Renato – Falegname.
  47. Capecci Alfredo – Meccanico.
  48. Capozio Ottavio – Impiegato postale.
  49. Caputo Ferruccio – Studente.
  50. Caracciolo Emanuele – Regista e tecnico cinematografico.
  51. Carioli Francesco – Fruttivendolo.
  52. Carola Federico – Capitano d’aviazione.
  53. Carola Mario – Capitano di fanteria.
  54. Casadei Andrea – Falegname.
  55. Sabato Martelli Castaldi. Generale.
  56. Caviglia Adolfo – Impiegato.
  57. Celani Giuseppe – Ispettore capo dei servizi annonari.
  58. Cerroni Oreste – Tipografo.
  59. Checchi Egidio – Meccanico.
  60. Chiesa Romualdo – Studente.
  61. Chiricozzi Aldo Francesco – Impiegato.
  62. Ciavarella Francesco – Marinaio.
  63. Cibei Duilio – Falegname.
  64. Cibei Gino – Meccanico.
  65. Cinelli Francesco – Impiegato.
  66. Cinelli Giuseppe – Portatore ai mercati generali.
  67. Cocco Pasquale – Studente.
  68. Coen Saverio – Commerciante.
  69. Conti Giorgio – Ingegnere.
  70. Corsi Orazio – Falegname
  71. Costanzi Guido – Impiegato.
  72. Cozzi Alberto – Meccanico.
  73. D’Amico Cosimo – Amministratore teatrale.
  74. D’Amico Giuseppe – Impiegato.
  75. D’Andrea Mario – Ferrovie.
  76. D’Aspro Arturo – Ragioniere.
  77. De Angelis Gerardo – Regista cinematografico.
  78. De Carolis Ugo – Maggiore dei Carabinieri Reali La Scuola Allievi Ufficiali dei Carabinieri a Roma è dedicata alla sua memoria.
  79. De Giorgio Carlo – Impiegato.
  80. De Grenet Filippo – Impiegato
  81. Della Torre Odoardo – Avvocato.
  82. Del Monte Giuseppe – Impiegato.
  83. De Marchi Raoul – Impiegato.
  84. De Nicolò Gastone – Studente.
  85. De Simoni Fidardo – Operaio.
  86. Di Capua Zaccaria – Autista.
  87. Di Castro Angelo – Commesso.
  88. Di Consiglio Cesare – Venditore ambulante.
  89. Di Consiglio Franco – Macellaio.
  90. Dl Consiglio Marco – Macellaio.
  91. Di Consiglio Mosè – Commerciante.
  92. Di Consiglio Salomone – Venditore ambulante.
  93. Di Consiglio Santoro – Macellaio.
  94. Di Nepi Alberto – Commerciante.
  95. Di Nepi Giorgio – Viaggiatore.
  96. Di Nepi Samuele – Commerciante.
  97. Di Nola Ugo – Rappresentante di commercio.
  98. Diociajuti Pier Domenico – Commerciante.
  99. Di Peppe Otello – Falegname ebanista.
  100. Di Porto Angelo – Commesso.
  101. Di Porto Giacomo – Venditore ambulante.
  102. Di Porto Giacomo – Venditore ambulante.
  103. Di Salvo Gioacchino – Impiegato.
  104. Di Segni Armando – Commerciante.
  105. Di Segni Pacifico – Venditore ambulante.
  106. Di Veroli Attilio – Commerciante.
  107. Di Veroli Michele – Collaboratore del padre commerciante.
  108. Drucker Salomone – Pellicciaio.
  109. Duranti Lido – Operaio.
  110. Efrati Marco – Commerciante.
  111. Elena Fernando – Artista.
  112. Eluisi Aldo – Pittore.
  113. Ercolani Giorgio – Tenente colonnello del Regio Esercito.
  114. Ercoli Aldo – Pittore.
  115. Fabri Renato – Commerciante.
  116. Fabrini Antonio – Stagnino.
  117. Fano Giorgio – Dottore in scienze commerciali.
  118. Fantacone Alberto – Dottore in legge.
  119. Fantini Vittorio – Farmacista.
  120. Fatucci Sabato Amadio – Venditore ambulante.
  121. Felicioli Mario – Elettrotecnico.
  122. Fenulli Dardano – Maggior Generale
  123. Ferola Enrico – Fabbro.
  124. Finamonti Loreto – Commerciante.
  125. Finocchiaro Arnaldo – Elettricista.
  126. Finzi Aldo – Politico.
  127. Fiorentini Valerio – Autista meccanico.
  128. Fiorini Fiorino – Maestro musica.
  129. Fochetti Angelo – Impiegato.
  130. Fondi Edmondo – Impiegato commerciante.
  131. Fontana Genserico -Tenente dei Carabinieri Reali, dottore in giurisprudenza.
  132. Fornari Raffaele – Commerciante.
  133. Fornaro Leone – Venditore ambulante.
  134. Forte Gaetano – Commerciante.
  135. Foschi Carlo – Commerciante.
  136. Frasca Celestino – Muratore.
  137. Frascà Paolo – Impiegato.
  138. Frascati Angelo – Commerciante.
  139. Frignani Giovanni – Tenente colonnello dei Carabinieri Reali
  140. Funaro Alberto – Commerciante.
  141. Funaro Mosè – Commerciante.
  142. Funaro Pacifico – Autista.
  143. Funaro Settimio – Venditore ambulante.
  144. Galafati Angelo – Pontarolo.
  145. Gallarello Antonio – Falegname ebanista.
  146. Gavioli Luigi – Impiegato.
  147. Gelsomini Manlio – Medico.
  148. Gesmundo Gioacchino – Professore di lettere.
  149. Giacchini Alberto – Assicuratore.
  150. Giglio Maurizio – Dottore in legge.
  151. Gigliozzi Romolo – Autista.
  152. Giordano Calcedonio – Corazziere.
  153. Giorgi Giorgio – Ragioniere.
  154. Giorgini Renzo – Industriale.
  155. Giustiniani Antonio – Cameriere.
  156. Gorgolini Giorgio – Ragioniere.
  157. Gori Gastone – Muratore.
  158. Govoni Aladino – Capitano dei granatieri.
  159. Grani Umberto – Tenente colonnello Regia Aeronautica.
  160. Grieco Ennio – Elettromeccanico.
  161. Guidoni Unico – Studente.
  162. Haipel Mario – Maresciallo del Regio Esercito.
  163. Iaforte Domenico – Calzolaio.
  164. Ialuna Sebastiano – Agricoltore.
  165. Imperiali Costantino – Rappresentante di vini.
  166. Intreccialagli Mario – Calzolaio.
  167. Kereszti Sandor – Ufficiale.
  168. Landesman Boris – Commerciante.
  169. La Vecchia Gaetano – Ebanista.
  170. Leonardi Ornello – Commesso.
  171. Leonelli Cesare – Avvocato.
  172. Liberi Epidemio – Industriale.
  173. Lioonnici Amedeo – Industriale.
  174. Limentani Davide – Commerciante.
  175. Limentani Giovanni – Commerciante.
  176. Limentani Settimio – Commerciante.
  177. Lombardi Ezio – Impiegato.
  178. Lopresti Giuseppe – Dottore in legge.
  179. Lordi Roberto – Generale della Regia Aeronautica.
  180. Lotti Giuseppe – Stuccatore.
  181. Lucarelli Armando – Tipografo.
  182. Luchetti Carlo – Stagnaro.
  183. Luna Gavino – Impiegato delle Regie Poste. Con il nome d’arte di
    Gavino de Lunas incise un disco di musica sarda pubblicato nel Regno
    Unito.
  184. Lungaro Pietro Ermelindo – Sottufficiale di Pubblica Sicurezza.
  185. Lunghi Ambrogio – Asfaltista.
  186. Lusena Umberto – Maggiore del Regio Esercito.
  187. Luzzi Everardo – Metallurgico.
  188. Magri Mario – Capitano d’artiglieria.
  189. Manca Candido – Brigadiere dei Carabinieri Reali.
  190. Mancini Enrico – Commerciante.
  191. Marchesi Alberto – Commerciante, comunista, ex ardito bersagliere
  192. Marchetti Duilio – Autista.
  193. Margioni Antonio – Falegname.
  194. Marimpietri Vittorio – Impiegato.
  195. Marino Angelo – Piazzista.
  196. Martella Angelo
  197. Martelli Castaldi Sabato – Generale della Regia Aeronautica.
  198. Martini Placido – Avvocato.
  199. Mastrangeli Fulvio – Impiegato.
  200. Mastrogiacomo Luigi – Custode del ministero delle Finanza.
  201. Medas Giuseppe – Avvocato.
  202. Menasci Umberto – Commerciante.
  203. Micheli Ernesto – Imbianchino.
  204. Micozzi Emidio – Commerciante.
  205. Mieli Cesare – Venditore ambulante.
  206. Mieli Mario – Negoziante.
  207. Mieli Renato – Negoziante.
  208. Milano Raffaele – Viaggiatore.
  209. Milano Tullio – Impiegato.
  210. Milano Ugo – Impiegato.
  211. Mocci Sisinnio
  212. Montezemolo Giuseppe – Colonnello del Regio Esercito.
  213. Moretti Augusto
  214. Moretti Pio – Contadino.
  215. Morgano Santo – Elettromeccanico.
  216. Mosca Alfredo – Elettrotecnico.
  217. Moscati Emanuele – Piazzista.
  218. Moscati Pace – Venditore ambulante.
  219. Moscati Vito – Elettricista.
  220. Mosciatti Carlo – Impiegato.
  221. Napoleone Agostino – Sottotenente di vascello della Regia Marina.
  222. Natali Celestino – Commerciante.
  223. Natili Mariano – Commerciante.
  224. Navarra Giuseppe – Contadino.
  225. Ninci Sestilio – Tramviere.
  226. Nobili Edoardo – Meccanico.
  227. Norma Fernando – Ebanista.
  228. Orlandi Posti Orlando – Studente.
  229. Ottaviano Armando – Dottore in lettere.
  230. Paliani Attilio – Commerciante.
  231. Pappagallo Pietro – Sacerdote.
  232. Pasqualucci Alfredo – Calzolaio.
  233. Passarella Mario – Falegname.
  234. Pelliccia Ulderico – Carpentiere.
  235. Pensuti Renzo – Studente.
  236. Pepicelli Francesco – Maresciallo dei Carabinieri Reali.
  237. Perpetua Remo – Rigattiere.
  238. Perugia Angelo – Venditore ambulante.
  239. Petocchi Amedeo
  240. Petrucci Paolo – Professore di lettere.
  241. Pettorini Ambrogio – Agricoltore.
  242. Piasco Renzo – Ferroviere.
  243. Piattelli Cesare – Venditore ambulante.
  244. Piattelli Franco – Commesso.
  245. Piattelli Giacomo – Piazzista.
  246. Pierantoni Luigi – Medico.
  247. Pierleoni Romolo – Fabbro.
  248. Pignotti Angelo – Negoziante.
  249. Pignotti Umberto – Impiegato.
  250. Piperno Claudio – Commerciante.
  251. Piras Ignazio – Contadino.
  252. Pirozzi Vincenzo – Ragioniere.
  253. Pisino Antonio – Ufficiale di marina.
  254. Pistonesi Antonio – Cameriere.
  255. Pitrelli Rosario – Meccanico.
  256. Polli Domenico – Costruttore edile.
  257. Portieri Alessandro – Meccanico.
  258. Portinari Erminio – Geometra.
  259. Primavera Pietro – Impiegato.
  260. Prosperi Antonio – Impiegato.
  261. Pula Italo – Fabbro.
  262. Pula Spartaco – Verniciatore.
  263. Raffaeli Beniamino – Carpentiere.
  264. Rampulla Giovanni – Tenente colonnello.
  265. Rendina Roberto – Tenente colonnello d’artiglieria.
  266. Renzi Egidio – Operaio.
  267. Renzini Augusto – Carabiniere.
  268. Ricci Domenico – Impiegato.
  269. Rindone Nunzio – Pastore.
  270. Rizzo Ottorino – Maggiore del Regio Esercito.
  271. Roazzi Antonio – Autista.
  272. Rocchi Filippo – Commerciante.
  273. Rodella Bruno – Studente.
  274. Rodriguez Pereira Romeo – Tenente dei Carabinieri Reali.
  275. Romagnoli Goffredo – Ferroviere.
  276. Roncacci Giulio – Commerciante.
  277. Ronconi Ettore – Contadino.
  278. Saccotelli Vincenzo – Falegname.
  279. Salemme Felice – Impiegato.
  280. Salvatori Giovanni – Impiegato.
  281. Sansolini Adolfo – Commerciante.
  282. Sansolini Alfredo – Commerciante.
  283. Savelli Francesco – Ingegnere.
  284. Scarioli Ivano – Bracciante.
  285. Scattoni Umberto – Pittore.
  286. Sciunnach Dattilo – Commerciante.
  287. Semini Fiorenzo – Sottotenente di vascello della Regia Marina.
  288. Senesi Giovanni – Esattore istituto di assicurazioni.
  289. Sepe Gaetano – Sarto.
  290. Sergi Gerardo – Sottotenente dei Carabinieri Reali.
  291. Sermoneta Benedetto – Venditore ambulante.
  292. Silvestri Sebastiano – Agricoltore.
  293. Simoni Simone – Generale.
  294. Sonnino Angelo – Commerciante.
  295. Sonnino Gabriele – Commesso.
  296. Sonnino Mosè – Venditore ambulante.
  297. Sonnino Pacifico – Commerciante.
  298. Spunticchia Antonino – Meccanico.
  299. Stame Nicola Ugo – Artista lirico.
  300. Talamo Manfredi – Tenente colonnello dei Carabinieri Reali.
  301. Tapparelli Mario – Commerciante.
  302. Tedesco Cesare – Commesso.
  303. Terracina Sergio – Commesso.
  304. Testa Settimio – Contadino.
  305. Trentini Giulio – Arrotino.
  306. Troiani Eusebio – Mediatore.
  307. Troiani Pietro – Venditore ambulante.
  308. Ugolini Nino – Elettromeccanico.
  309. Unghetti Antonio – Manovale.
  310. Valesani Otello – Calzolaio.
  311. Vercillo Giovanni – Impiegato.
  312. Villoresi Renato – Capitano del Regio Esercito.
  313. Viotti Pietro – Commerciante
  314. Vivanti Angelo – Commerciante.
  315. Vivanti Giacomo – Commerciante.
  316. Vivenzio Gennaro
  317. Volponi Guido – Impiegato.
  318. Wald Pesach Paul
  319. Wald Schra
  320. Zaccagnini Carlo – Avvocato.
  321. Zambelli Ilario – Telegrafista
  322. Zarfati Alessandro – Commerciante.
  323. Zicconi Raffaele – Impiegato.
  324. Zironi Augusto – Sottotenente di vascello della Regia Marina.

 

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La verità sul Tibet secondo il PMLI

La questione del Tibet è stata creata
ad arte dalla cricca reazionaria e semifeudale tibetana istigata e
sostenuta dall’imperialismo e dalla sua politica aggressiva contro
l’allora Cina socialista


(articolo de "Il Bolscevico" n. 17 – 30 aprile 1998)


Della nauseabonda orgia anticomunista
scatenata dalla borghesia e dall’imperialismo che vomitano altro veleno
e calunnie sul socialismo nel tentativo di cancellarlo definitivamente
dalla mente del proletariato e dissuadere le nuove generazioni
dall’aprire i libri del socialismo e del marxismo-leninismo-pensiero di
Mao per spingerle ad abbandonare definitivamente l’aspirazione a
trasformare il mondo, abbattere la società borghese e conquistare il
socialismo fa parte a pieno titolo il film filobuddista, anticomunista
e antiMao di Martin Scorsese, "Kundun"; il film riporta una parte della
vita dell’attuale Dalai Lama, il XIV, dalla nascita alla fuga dal Tibet
nel 1959, con la pretesa di raccontare la "vera storia" della questione
tibetana. Scorsese legge la storia con le lenti della borghesia, della
reazione e dell’imperialismo, deforma o nasconde in parte la realtà di
come si sono svolti i fatti, per portare chi va a vedere il film a
pensare, come Bobbio, che il comunismo per sua natura è dispotico e che
si è imposto dovunque col terrore. Solo che ha sbagliato completamente
esempio.
La liberazione del popolo tibetano dalle catene della schiavitù
feudale, la partecipazione della minoranza nazionale tibetana nel pieno
rispetto dei suoi costumi e tradizioni allo sviluppo della società
socialista nella Cina di Mao poteva essere un fatto compiuto in breve
tempo; all’esercito popolare sarebbero bastati pochi giorni nel 1950
per spazzare via dal potere il governo reazionario tibetano e il pugno
di nobili e ecclesiastici che opprimevano la popolazione, quella parte
cioè dei circa 60 mila componenti la classe superiore che sfruttava i
restanti quasi 1,2 milioni di tibetani tenuti in condizioni di schiavi.
Come bastava un semplice ordine affinché il Dalai Lama fosse arrestato
nel suo palazzo, il Norbou Linka, per impedirne la fuga in India. Il
governo popolare centrale poteva prendere sotto il suo controllo non
solo le questioni di politica estera e non lasciare intatto il sistema
politico e sociale, l’esercito e la moneta, in attesa che il governo
locale e il popolo tibetano decidessero da soli i tempi e i modi delle
riforme. Tutto ciò non è avvenuto. L’esercito popolare non si è
comportato in Tibet come un esercito occupante, è stato autosufficiente
e autonomo per non pesare sulla popolazione; non ha represso e
arrestato gli elementi reazionari istigati dall’imperialismo, che pure
dal 1951 al 1959 hanno organizzato bande armate e compiuto violenze in
varie parti della regione, lasciando il compito al governo locale
nonostante che nella sua maggioranza fosse il centro interno della
controrivoluzione; non ha sparato il primo colpo ma solo reagito una
volta aggredito nella insurrezione controrivoluzionaria del 1959. Il
governo centrale ha sottoscritto e mantenuto accordi affinché la
trasformazione politica ed economica del Tibet avvenisse gradualmente e
soprattutto col pieno consenso e la cooperazione degli strati superiori
del Tibet. L’accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet
sottoscritto dal governo centrale e quello locale il 23 maggio 1951
traccia questa linea. Nelle parti riguardanti la riorganizzazione
dell’esercito e le riforme ancora nel 1959, dopo otto anni, era al
punto di partenza per il boicottaggio dei reazionari tibetani, eppure
il governo popolare centrale aveva concesso altri anni di tempo
affinché maturassero le condizioni per una sua piena applicazione. Si
realizzeranno con la sconfitta delle forze reazionarie tibetane,
costruita con le loro stesse mani.
Ciò rispondeva alla lungimirante e corretta politica del governo
popolare centrale, della Cina socialista guidata da Mao, verso le
minoranze nazionali, applicata alla specifica situazione del Tibet, per
far sì che il popolo tibetano e la regione autonoma del Tibet
occupassero degnamente il loro posto nella Repubblica popolare.
Diversa è oggi la situazione nella Cina guidata dai rinnegati dirigenti
fascisti e revisionisti di Pechino che morto Mao hanno fatto molta
strada sulla via del tradimento di Mao e del socialismo e della
restaurazione del capitalismo. Ma questa è un’altra storia.
Quella della liberazione pacifica del Tibet parla da sola; deve essere
naturalmente letta con gli occhi del proletariato, una lettura di
classe con la lente del marxismo-leninismo-pensiero di Mao, opposta a
quella spacciata dalla borghesia, dal Dalai Lama, da Scorsese.

I LEGAMI STORICI TRA IL TIBET E LA CINA
I legami storici tra il Tibet e la Cina sono inizialmente costruiti
con matrimoni tra principesse cinesi spose a re tibetani. Nell’800
scoppiano dissensi tra il re e alti ecclesiastici che lo assassinano;
seguiranno 400 anni di divisioni e scontri tra le tribù feudali. Nel
1253 l’armata dell’imperatore cinese ristabilisce l’ unità della
regione che è incorporata nell’impero. La struttura politica e
religiosa del Tibet fu determinata gradualmente dai successivi governi
imperiali. Nel 1275 l’imperatore Kubilai Khan (dinastia Yuans) conferì
al capo della setta buddista di Sakyapa il titolo di referente per
l’impero unificando il potere temporale e spirituale nella figura del
Dalai Lama. Alle successive cerimonie di investitura dei nuovi Dalai,
compreso l’ultimo il XIV, saranno sempre presenti inviati del governo
centrale. I cambiamenti delle dinastie reggenti in Cina non portano
modifiche alla struttura di potere tibetana. La nuova dinastia
imperiale dei Tsings, conferma il potere del Dalai nel 1653. Il governo
locale (kacha) è definito come compiti, struttura e funzioni come
organo amministrativo, composto da 4 kaloons, dignitari d’alto rango
inferiori solo al reggente che risponde al Dalai Lama. La struttura
sociale di tipo feudale che vede sul gradino più alto poche centinaia
di famiglie di nobili, gli alti ecclesiasti e i membri del governo
possedere tutte le ricchezze della regione si manterrà sostanzialmente
fino al 1959.

LE INVASIONI COLONIALISTE
Il declino della dinastia Tsings è segnato dalle aggressioni
colonialiste alla Cina, ivi compresi i territori del Tibet che sono
invasi dagli imperialisti britannici nel 1886. Le truppe inglesi si
scontrano con una dura resistenza del popolo tibetano. Una seconda
invasione inglese si ha nel 1904. Il popolo tibetano sconfitto sul
piano militare proseguiva l’opposizione tanto che gli inglesi non
poterono annettere la regione alle loro colonie. Cercarono così di
provocare la disgregazione interna del Tibet appoggiandosi su un pugno
di reazionari della classe superiore che rivendicavano la fine
dell’oppressione dell’impero cinese per staccare il Tibet dalla Cina e
portarlo sotto il controllo dell’imperialismo inglese. Una occasione
capitò con la rivoluzione repubblicana in Cina nel 1911 contro la
dinastia mancese. I gruppi di reazionari tibetani scatenarono una
rivolta contro il residente imperiale a Lhasa ma anche contro i
tibetani patrioti;, molti di loro furono assassinati, il IX Pantchen
Erdeni fu costretto a fuggire dal Tibet per evitare l’assassinio. Gli
inglesi convocarono la conferenza di Simla, nel 1913, tra Cina, Gran
Bretagna e Tibet con lo scopo di definire un accordo per inglobare il
Tibet nella loro colonia indiana. L’opposizione del popolo tibetano
costrinse la delegazione cinese a non firmare l’accordo. Anche un
secondo tentativo inglese nel 1918 fallì.

MORTE XIII DALAI REGGENZA RABCHEN
Alla morte del XIII Dalai (1933), in attesa del nuovo, la gestione
dell’amministrazione degli affari tibetani spettò al reggente Rabchen,
interprete dei sentimenti patriottici della popolazione ecclesiastica e
laica del tibet che si opponeva alle mire separatiste e filo
colonialiste dei gruppi reazionari tibetani. Rabchen appoggia la guerra
contro gli invasori giapponesi condotta dalle forze comuniste dirette
da Mao.
Il successore del Dalai, l’attuale XIV°, fu trovato dal governo locale
nel 1938 e insediato nel palazzo di Potala a Lhasa il 22 febbraio 1940
con una cerimonia a cui parteciparono come sempre inviati del governo
centrale, allora del Kuomintang.
I gruppi reazionari tibetani tornarono all’attacco nel 1947; finita la
vittoriosa guerra contro l’occupazione giapponese infuriava in Cina lo
scontro tra l’esercito popolare guidato da Mao e le truppe reazionarie
del Kuomintang sostenute dall’imperialismo americano, che in Asia era
affiancato dagli imperialisti britannici, francesi e olandesi per
reprimere movimenti indipendentisti nelle colonie e per contenere
"l’avanzata del comunismo".
Già nel 1943 il governo locale del Tibet aveva annunciato la
costituzione di un proprio ufficio per gli affari esteri. Nel 1947 un
gruppo di reazionari tibetani organizzarono un complotto, arrestarono
il reggente Rabchen, assassinato in carcere, e diversi patrioti fra cui
il padre del Dalai Lama e presero il potere manifestando l’intenzione
di separare il Tibet dalla Cina e trasformarlo in una colonia
imperialista, secondo la teoria, esposta dagli inglesi della necessità
di creare uno stato cuscinetto tra India e Cina. Gli inglesi
convocheranno nel marzo 1947 una conferenza asiatica a Nuova Delhi alla
quale il Tibet fu invitato come paese indipendente. A fianco delle
ingerenze inglesi sul Tibet si schierarono gli Usa che nel mese di
ottobre del 1947 invitarono nel loro paese una "missione commerciale
tibetana". La missione arriverà negli Usa nel luglio 1948. La città
indiana di Kalimpong diventa il centro esterno di base per
l’aggressione imperialista al Tibet. Nel luglio 1949 a fronte della
disfatta oramai in vista delle forze reazionarie del Kuomintang il
governo locale del Tibet invita i rappresentanti del Kuomintang a
lasciare Lhasa, per "prevenire l’infiltrazione comunista in Tibet".
Nell’agosto del 1949 sulla stampa americana appaiono articoli che
difendono la separazione del Tibet dalla Cina, il suo ingresso alle
Nazioni Unite e chiedono al governo di aiutare militarmente il governo
locale del Tibet. Gli imperialisti americani e inglesi vista fallita
l’operazione di sostegno al Kuomintang cercano di sottrarre alla Cina
socialista perlomeno il Tibet. Ma falliscono.

NASCITA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE. PROGETTO DI LIBERAZIONE PACIFICA DEL TIBET
Il primo ottobre 1949 Mao proclama la nascita della Repubblica
popolare cinese; tutta la Cina è liberata ad eccezione del Tibet e di
Taiwan. Il 24 novembre 1949 da Pechino il Panchen Erdeni lancia un
appello per la liberazione del Tibet. Il ministero degli esteri cinese
denuncia le manovre imperialiste contro il Tibet il 20 gennaio 1950. Il
governo cinese conferma la volontà di una liberazione pacifica del
Tibet e nel luglio invia in Tibet il budda vivente Garda, un patriota
tibetano vicepresidente del governo popolare provinciale del Sikang (la
zona confinante col Tibet), a prendere contatto col governo locale e
negoziare la liberazione pacifica della regione. Al suo arrivo a
Tchamdo è bloccato dai reazionari tibetani organizzati da un agente
britannico (Robert Webster Ford) che il 21 agosto lo fa arrestare e
assassinare.
Il governo popolare centrale dà perciò l’ordine all’esercito popolare
di liberazione (Epl) di entrare in Tibet. I reazionari in seno al
governo locale tibetano ordinano la resistenza a Tchamdo. Il 19 ottobre
1950 l’Epl libera Tchamdo. Il 1° novembre 1950 il segretario di Stato
americano Acheson urla all’aggressione cinese al Tibet e annuncia
pesanti conseguenze. Il governo indiano denuncia l’invasione del Tibet
da parte della Cina. Perciò i reazionari tibetani guidati dal reggente
Tagcha portano il Dalai a Yatung, da dove contano di spostarlo in
India. Ma i tre principali monasteri e le masse popolari tibetane si
oppongono, diversi consiglieri del Dalai disapprovano la fuga verso
l’India e sono per aprire negoziati col governo popolare centrale.
Nella primavera del 1951 Tagcha è costretto a dimettersi e il Dalai
nomina 5 plenipotenziari incaricati di condurre per conto del governo
locale i negoziati con il governo popolare centrale. Falliscono così le
manovre imperialiste per staccare il Tibet dalla Cina.

L’ACCORDO IN 17 PUNTI
I negoziati sotto la condotta diretta del CC del PCC e di Mao si
conclusero il 23 maggio 1951 con la firma dell’accordo in 17 punti per
la liberazione pacifica del Tibet. In seguito alla firma dell’accordo
il Dalai lascia Yatung e torna a Lhasa il 17 agosto 1951, dove il 26
ottobre l’esercito popolare entra acclamato calorosamente dalla
popolazione. I reazionari tibetani per sabotare l’accordo dettero vita
a una "assemblea popolare" per chiedere il ritiro dell’Epl dal Tibet,
circondarono il comando dell’Epl a Lhasa e lanciarono attacchi armati
contro patrioti tibetani. Il 27 aprile 1952 il governo locale allontanò
dalle loro funzioni gli animatori dell’assemblea e ne ordinò il 1°
Maggio lo scioglimento.
L’atteggiamento della Cina di Mao come si comprende dall’accordo in 17
punti è di estremo rispetto delle specificità della situazione
tibetana, non viene toccata l’organizzazione del governo locale e la
struttura sociale, sono rispettate le credenze religiose, le usanze e i
costumi locali, qualsiasi riforma è subordinata all’accettazione del
governo locale. Da parte sua l’esercito popolare secondo le direttive
di non pesare nemmeno per uno spillo sulle spalle della popolazione
tibetana si autorganizza. In una direttiva interna del CC del PCC sul
lavoro nel Tibet del 6 aprile 1952 si afferma: "Dobbiamo fare ogni
sforzo e usare metodi appropriati per conquistare il Dalai e la
maggioranza dei suoi strati superiori, isolare la minoranza dei cattivi
elementi e arrivare in molti anni, gradualmente e senza spargimento di
sangue, alla trasformazione politica ed economica del Xizang (Tibet).
(…) Se le cose andranno per le lunghe non ne avremo grandi danni, al
contrario, ne trarremo dei vantaggi. Lasciamo che essi (i reazionari
che si opponevano all’accordo in 17 punti, ndr) commettano ogni genere
di atrocità insensate contro il popolo, noi ci occuperemo solo della
produzione, del commercio, della costruzione di strade, della medicina
e del fronte unito (unità con la maggioranza e educazione paziente) e
di altre cose buone, con lo scopo di conquistare le masse e aspettare
che maturi la situazione per trattare di nuovo il problema
dell’applicazione dell’accordo. Se essi trovano che istituire le scuole
elementari non sia conveniente possiamo anche smettere di farle".
Il governo popolare centrale promuove lo sviluppo del Tibet con la
costruzione di strade, ponti, ospedali, scuole, fabbriche e fattorie.
Risolve le questioni della frontiera con l’India che aveva ancora sul
territorio della regione installazioni postali e telegrafiche
installate durante l’aggressione inglese del 1904; il trattato firmato
il 29 aprile 1954, basato sui cinque principi della coesistenza
pacifica, riguarda il commercio e le comunicazioni fra la regione del
Tibet e la Cina e l’India. Con questo accordo l’india di Nehru
riconosce la sovranità cinese sul Tibet.
Il Dalai partecipa con la delegazione tibetana nel settembre 1954 alla
prima Assemblea popolare nazionale cinese che si tiene a Pechino.
Ambienti reazionari cercano di cogliere l’occasione per fomentare
disordini.
Il 9 marzo 1955 il governo popolare centrale approva la costituzione
della regione autonoma del Tibet che sarà costituita in base ai lavori
di un apposito comitato preparatorio costituito nell’aprile del 1956,
con il Dalai Lama come presidente e il Panchen Erdeni vicepresidente.
Per l’opposizione dei settori reazionari tibetani i lavori del comitato
non fanno passi in avanti. Come pure due punti importanti dell’accordo
del 1951 quali la riorganizzazione dell’esercito tibetano nell’esercito
popolare e la riforma del sistema sociale di servitù. Il governo
centrale nonostante questi limiti nell’applicazione dell’intese non
vuole mettere furia al governo locale tibetano e anzi alla fine del
1956 lo informa che per altri 6 anni non saranno introdotte riforme
democratiche nella regione e che il momento della loro introduzione
sarà discusso e deciso tra i dirigenti tibetani e le masse popolari del
Tibet.
I reazionari tibetani con l’aiuto dell’imperialismo e dei reazionari
cinesi di Taiwan preparano una sommossa allorché il Dalai si recherà in
India alla fine del 1956 per le celebrazioni del 2500 anniversario del
budda ma i loro tentativi di scatenare una sollevazione a Lhasa
falliscono. Nel maggio e giugno del 1958 organizzano bande armate in
diverse zone della regione, grazie ai rifornimenti in armi di Taiwan,
dirette dal comando installato nella città indiana di Kalimpong poco
oltre la frontiera. Queste bande si rendono responsabili di sabotaggi
alle vie di comunicazione, violenze e saccheggi contro la popolazione.
All’inizio del ’59 ritennero giunto il momento per un nuovo tentativo
di sollevazione e concentrarono un certo numero di controrivoluzionari
armati a Lhasa.

LA SOLLEVAZIONE CONTRORIVOLUZIONARIA DEL ’59
Il Dalai aveva deciso di assistere il 10 marzo ad una
rappresentazione artistica all’auditorium del comando della regione
militare del Tibet dell’esercito popolare a Lhasa. Il gruppo
reazionario tibetano dicendo che l’invito dell’esercito popolare era
una trappola per sequestrare il Dalai scatena una rivolta nella
capitale. Il rappresentante ad interim del governo centrale e
commissario politico del comando della regione militare del Tibet con
una lettera invita il Dalai a non recarsi al comando per non avere
difficoltà in seguito alle provocazioni degli ambienti reazionari nella
capitale. Gruppi armati mobilitati dal gruppo reazionario circondano la
sede del quartier generale dell’esercito popolare e dei rappresentanti
del governo centrale a Lhasa. Assassinano varie personalità tibetane
che si opponevano alla sollevazione separatista fra cui un membro del
comitato preparatorio della regione autonoma e un membro del governo
locale, organizzano posti di blocco armati lungo le principali vie di
comunicazione.
Il Dalai in uno scambio di corrispondenza col rappresentante del
governo centrale a Lhasa, il generale Tan, afferma di essere stato
impedito dai suoi consiglieri di recarsi alla rappresentazione
teatrale, condanna la cricca reazionaria che ha violato la legge e che
compromette le relazioni tra il governo centrale e locale, dice di
voler mettere fine agli atti illegali. Condanna nella lettera del 12
marzo un attacco armato di soldati tibetani sulla strada per Tsinghai.
Comunica che ha ordinato la dissoluzione immediata della illegale
"assemblea popolare" entrata in clandestinità dopo lo scioglimento
deciso il 1° Maggio 1952 e denuncia l’introduzione di elementi
reazionari nella sua residenza di Norbu Linka. Nella lettera del 15
marzo il generale Tan esprime la sua preoccupazione per la sicurezza
personale del Dalai e lo invita, se lo ritiene necessario, a ricorrere
per un breve tempo alla protezione presso il comando della regione
militare. Nella risposta del 16 marzo il Dalai comunica di volersi
impegnare a tracciare una netta linea di demarcazione tra gli elementi
progressisti e quelli controrivoluzionari e non appena avrà chiarito su
quanti saranno a suo fianco si recherà segretamente al comando della
regione militare. Ma nella notte del 17 marzo il Dalai fugge da Lhasa
verso l’India e due giorni dopo i reazionari lanciano un attacco su
larga scala contro l’esercito popolare. L’Epl reagisce e aiutato dalla
popolazione, dagli ecclesiastici e dai laici patriottici sconfigge in
due giorni i controrivoluzionari.

LA VITTORIA DEL POPOLO TIBETANO
Il 28 marzo il primo ministro Chou En Lai allo scopo di
salvaguardare l’unità del paese e l’unione delle nazionalità ordina al
comando della regione militare del Tibet di sconfiggere completamente
la ribellione in tutta la regione, di sciogliere il governo locale che
l’ha fomentata e di conferire le funzioni e i poteri del governo locale
al comitato preparatorio della regione autonoma del Tibet. Di questo
organismo da cui sono espulsi 18 elementi reazionari che avevano
organizzato o appoggiato la ribellione è nominato presidente il
Pantchen Erdeni.
La veloce repressione del moto controrivoluzionario è possibile dato
che, degli oltre 1,2 milioni di tibetani dalla parte dei
controrivoluzionari, si sono schierati solo 20 mila uomini tra cui
molti arruolati a forza e diversi provenienti da fuori il Tibet. La
maggioranza della popolazione tibetana composta da contadini e
allevatori aspira a liberarsi del sistema feudale di servitù che li
costringe all’estrema povertà. Anche nello strato superiore, fra i
possessori di terre e ecclesiastici vi sono numerosi patrioti che si
sono schierati contro la ribellione e sostengono il processo di riforme
democratiche del loro sistema sociale.
Sono queste le basi che permettono la vittoria rapida dell’Epl e la
sconfitta dei piani dei reazionari e degli imperialisti. Con
l’imperialismo americano che strepita contro il "barbaro intervento
contro il popolo tibetano" mentre il Dalai dalla città indiana di
Tezpur diffonde il 18 aprile una dichiarazione a sostegno
dell’indipendenza del Tibet, contro l’accordo del 1951 a suo dire non
negoziato ma "imposto" dal governo centrale, per sostenere che i primi
a sparare sono state le truppe dell’Epl il 17 marzo. La versione dei
fatti sposata da Scorsese in "Kundun".
Il film si chiude con il Dalai che dal rifugio in India osserva col
cannocchiale le alte vette tibetane. Non riesce a vedere però le
manifestazioni di massa a Lhasa e nelle altre città con le quali il
popolo oppresso esprimeva il suo appoggio alla repressione della
controrivoluzione. Non vede il milione di schiavi che si levava ad
accusare i membri reazionari del governo locale, fra gli ecclesiastici
e i nobili, dei loro crimini, che spezzava le catene della schiavitù
abolendo la proprietà fondiaria e il sistema di servitù. Adesso non
erano più bestie da soma ma padroni del loro destino, protagonisti
della storia del Tibet, non più centrata su re e nobili, a fianco della
altre nazionalità della Cina socialista, nella Regione autonoma del
Tibet che sarà formalmente proclamata nella prima sessione della prima
Assemblea popolare del Tibet tenuta a Lhasa dal 1° al 9 settembre del
1965.

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Le violenze impunite del lager Bolzaneto

C’ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo
ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri
l’hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione
dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini
compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti,
carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali,
ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell’amministrazione
penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai
"prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di
sedersi. Distribuiva la bottiglia dell’acqua, se ne aveva una a
disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di
passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon
cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo
a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto
a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia
di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a
55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi
e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli,
greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre
statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche
professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I
pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati
hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio
prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è
andato molto vicini", ma l’accusa si è dovuta dichiarare impotente a
tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la
testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il Parlamento non ha
trovato mai il tempo – né avvertito il dovere in venti anni – di
adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani,
alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro
Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d’uso corrente da gettare in
faccia agli imputati: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro
arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre
anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe
che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della
prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto
scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio,
possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né,
contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte
in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di
dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che
pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di
trascurare che la tortura ci può appartenere. Che – per tre giorni – ci
è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta – 1225 – c’era scritto: "Nessun uomo libero
sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo
fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo
mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo
la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all’articolo 13
si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza
fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di
libertà"

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un’accorta
gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna",
modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità
cittadine, civili, militari, religiose coltivando l’idea di farne un
"Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C’è un
campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri"
accompagnavano l’arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni,
calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo?
Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov’era il famigerato "ufficio matricole" c’è ora una cappella
inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001
risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una
biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume
italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato
la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l’ambiente è diverso e il clima di
piombo. Dopo il cancello e l’ampio cortile, i prigionieri sono sospinti
verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o
quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il
garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra,
due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è
costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto
chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se
stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei
figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto…". A
un’altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli.
Anche H. T. chiede l’avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D.
si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto.
Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è
accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti
hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima,
perquisiti – gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra – e
denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per
accertare la presenza di oggetti nelle cavità".

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre
giorni e i numeri che si raccolgono – 55 "fermati", 252 "arrestati" –
sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella
struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di
entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" – prima del
trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera –
è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte
tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati
all’ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde)
sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un
gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di
attesa". La "posizione del cigno" – in piedi, gambe divaricate, braccia
alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di
quei giorni, nell’attesa di poter entrare "alla matricola". Superati
gli scalini dell’atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella
palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In
ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la
schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi
alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle
donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un
gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o
ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia
penitenziaria". C’è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui
genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere
le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C’è
chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo
spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare
nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli
fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo
minacciano "di rompergli anche l’altro piede". Poi, gli innaffiano il
viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C’è
chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non
picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli
viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del
martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in
piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli
ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora,
un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?".
S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A.
F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare
pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte".
S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a
denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo
obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia
penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con
sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a
spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti
alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la
testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli
agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la
schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina.
C’è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi,
minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie
perquisizioni, una della polizia di Stato, l’altra della polizia
penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a
restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia
penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le
operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing
venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a
rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a
quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute
offensive, le risate, gli scherni. P.

B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la
perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne
fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un’agente donna gli si
avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in
infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al
necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte.
Il peggio avviene nell’unico bagno con cesso alla turca, trasformato in
sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i
prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all’accompagnatore. Che
sono spesso più d’uno e ne approfittano per "divertirsi" un po’.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di
assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale
appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una
maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta.
L’accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra.
E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al
bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la
insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le
dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti
piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano
allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì,
nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria
perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un’obiezione. Anche
il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e
spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della
mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella
cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il
suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per
la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice
bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei"
con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini,
"indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue.
Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno
preparando un’iniezione. Chiede: "Che cos’è?". Il medico risponde: "Non
ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo
medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo
trasferiscono a Bolzaneto. All’arrivo, lo picchiano contro un muretto.
Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c’è un carabiniere morto. Un
poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani.
Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all’osso". G.
A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza
anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno
straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava
accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno
omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel
trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c’è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia
dell’estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le
pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento,
però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E
raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella
sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la
dignità della persona e i suoi diritti. È un’osservazione che già
dovrebbe inquietare se non fosse che – ha ragione Marco Revelli a
stupirsene – l’indifferenza dell’opinione pubblica, l’apatia del ceto
politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono
macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose
delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare – le istituzioni dello Stato, chi le
governa, chi ne è governato – che per settantadue ore, in una caserma
diventata lager, il corpo e la "dimensione dell’umano" di 307 uomini e
donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero
far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri
vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso
cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia
alla coerenza"?

 di GIUSEPPE D’AVANZO

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Colpo grosso all’Asinara

Nel palazzo all’Asinara quante anime birbanti
ed il lusso delle braccia su arcipelaghi di sogni,
presidiavan l’orizzonte aspettando che Caronte
traghettasse nell’inferno i custodi dell’intento.
Nell’ampolla dello Stato le matricole in poltiglia
designate in bianco e nero dalla veste del giudizio,
sono inchiostro sui giornali, quattro calci nel cortile,
lettere d’amore messe in tasca e mai spedite.
E i corsari nella stiva hanno maschere d’assalto
collaudate in alto mare per la presa del palazzo,
si dispongono sui trampoli ammantando l’orizzonte,
brillan fiaccole a petrolio, sulla strada delle onde.
Arlecchino il timoniere spia la rotta a Pantalone,
Mangiafuoco sulla poppa esplode fiori dal cannone,
Pulcinella giu’ in cabina cento passi ha contato
Tra chi burla con la mafia e chi muore in mezzo a un prato.
E nel circo all’Asinara i funamboli festanti
Ed un sociologo trentino all’evolversi dei sogni,
lancian perle di corallo agli artisti del velluto
che a Palazzo Chigi hanno ucciso e poi taciuto.
Dentro l’urna di una loggia i compagni in fila indiana
posti a numeri vincenti sulla ruota di Torino
vengon estratti dalla sorte di una lotteria di vite
che premia la morte sulla scia di una grafite.
Hanno illuminato un botto i pirati dello Stretto
liberando i guastafeste dalle canne in doppio petto,
ora tramano un percorso le parole che sui muri
circondavan di poesia la stagione degli impuri.
Si ricorda a chi ci ascolta che noi siamo giunti in tempo
per un lifting milionario ad un cervello poco attento
che oggi balza sulle antenne delle case senza storia
prosciugando sangue e bile a chi ha in cuore la memoria.
Nel palazzo all’Asinara ora vivono due studenti
ed il gelo di una cella come alito tra i denti.
Nella terra degli olivi c’è chi arringa gli olivastri,
il bancone della vita offre solo frutti guasti!

 Testo: Andrea Ruggiero

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compostaggio fai da te

Negli anni precedenti sono sempre stato a favore della sepoltura dei proprio rifiuti organici nel proprio giardino, quando se ne possiede uno. Pero’ non mi son mai posto il problema di controllare se ci fossero rimedi piu’ efficaci per smaltirli, fin quando parlando con amici ho scoperto gli impianti di compostaggio, in molti paesi vengono addirittura forniti bidoni per il compostaggio (composter) per ogni abitazione o parco. 

 

composter

 

Per tentare di cambiare rotta verso la differenziata, ho provato a vedere di che strano oggetto si trattasse, ma ho scoperto, mio malincuore, che e’ un semplice bidone con fori laterali per ossigenare i rifiuti organici. 

Non avendone la possibilita’ di averne uno, ho deciso di costruirmelo.

Basta montarsi una sorta di baule di legno (anche riciclato da vecchi mobili), con delle fessure sui lati, in modo da far entrare ossigeno all’interno, ci si forma sul fondo uno strato di terreno e rifiuti da giardino (foglie, rami, erba) e su di esso si buttano i rifiuti organici o in gergo "l’umido", si ricopre questo pattume con del terreno, utile perche’ contiene zolfo quindi ne favorisce il compostaggio, (bisogna fare in modo che il riempimento sia stratificato: terra – umido – terra – umido, and so on) chiudiamo il coperchio, sempre di legno e lasciamo il tutto in un posto non soggetto a cambiamenti climatici e abbastanza umido, se non lo e’ basta buttarci di tanto in tanto dell’acqua. Dopo 3/4 mesi dovreste trovare nel contenitore il prodotto finale, il composer, ottimo concime per le vostre piante.

PS: Si puo’ realizzare anche in casa, o meglio su un balcone, visto che granze alle prese d’aria che ha il composter, non favorisce il marcire dei rifiuti e quindi evita i cattivi odori. 

Tutto cio’ puo’ essere divertente e si scopre come l’immondizia non sia solo roba putrida e puzzolente, ma parte della nostra vita di consumatori quotidiani. 

 

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figlio cosa pensi?

"cosa racconterai a tuo figlio, se ti chiedera’ tu cosa facevi?"

"Siamo sicuri che i nostri figli ci chiederanno qualcosa con tanta curiosita’?". 

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Napoli, cittadini, ultras e monnezza

"Ma cosa sta succedendo li’ a Napoli?", "Ma cosa avete combinato a Napoli?",
le domande piu’ in voga nelle ultime settimane, con l’intramezzo della
settimana dell’amore esternato sottoforma di regali.
Il cosa sta succedendo non e’ assolutamente una novita’, e’ vita quotidiana,
vita consumata e spesso sperperata in parole con pochi fatti, anzi… a volte
anche con poche parole. Gia’ da 15 anni si profilava questo presente cosi’
putrido e puzzolente, quando Nunzio Perrella un ex boss del Rione Traiano disse, "Dotto’,
non faccio più droga. No, adesso ho un altro affare. Rende di più e soprattutto
si rischia molto meno. Si chiama monnezza, dotto’. Perché per noi la monnezza
è oro". Oggi, dove 15 anni fa si sversavano rifiuti di ogni genere, da quelli
cittadini a quelli industriali, illegali e pericolosi, si susseguono i presidi
dei cittadini contro lo sversamento LEGALE deciso dalla regione. Oggi i
cittadini di Pianura sono quasi tutti uniti contro la riapertura della
discarica proprio fuori le proprie finestre, contro la pezza che vogliono
mettere le istituzioni locali per far sparire per qualche altro mese
l’emergenza.
Inutile nascondere il mio profondo dolore e sofferenza, ascoltando commenti
dei cosi’ detti "vall ‘ngopp a munnezz" "Galli sulla munnezza", o di persone
il cui unico commento e’ "munnizzari", quando i loro padroni, sversavano
illegalmente nelle nostre fertili terre. E’ come dire che la colpa del
traffico di droga sia solo di chi consuma, non di chi vende. Ogni giorno
bisogna sempre mortificarsi e ingoiare il rospo, oppure cercare di difendersi
per quei 5 minuti che riescono a farci trattenere con l’interlocutore cieco.
Io, ci sono stato ai presidi di questi giorni, ho visto due tipi di rivolte.
Due tipi di persone, fuori a dei cancelli di ferro riciclato, che intonacavano
una terra quasi islandese, per i fumi che fuoriuscivano dal terreno, fumi
velenosi, puzzolenti.
C’erano le persone che manifestavano il loro dissenso alla riapertura della
collina di rifiuti. Persone pacifiche, persone con occhi lucidi e con la
rabbia tra i denti. Alcune di loro travestite da agenti greenpeace, che
ripetevano il rosario a memoria, altre che prima del presidio avevano
depositato sotto un cavalcavia il proprio frigorifero vecchio. Io ero tra questi,
non cercavo di capire l’origine della rabbia, e’ la stessa che mi portavo
dietro anch’io, cercavo di capire perche’ quelle persone giusto 4 mesi
prima non e’ scesa a protestare contro le discariche a cielo aperto che si
trovavano proprio ai bordi delle loro strade, fuori le scuole dei propri
figli, ma la cosa che mi fa piu’ dolore e’ il perche’ nessuno abbia mai
protestato contro le circa 150 discariche abusive nella provincia di Napoli,
discariche sotto il controllo della camorra, dove magari uno dei manifestanti
lavorava. Ho cercanto di parlarne con qualcuno, ma il dialogo era quasi
impossibile, la rabbia li soprassedeva, li divorava dall’interno, senza
lasciare traccia di un attimo di coscienza.
Il loro grido era vero e sentito, era giusto ed io li ho seguiti, ma la mia
domanda era sempre li’, tra un incendio e l’altro.
L’altra tipologia di protesta era quella della guerriglia, con quella stessa
parola che si ascolta ogni domenica allo stadio: "mentalita’", la mentalita’ di
distruggere senza domandarsi. La mentalita’ di protestare contro gli
inceneritori, bruciando quintali e quintali di immondizzia per strada, la
mentalita’ di assaltare un camion dei pompieri giunto per spegnere i roghi dei
nostri avanzi, spaccando il vetro e lanciando nell’abitacolo una bomba carta,
io mi sono sentito molto vicino ai pompieri non ai guerriglieri quel giorno,
non voglio fare il Pasolini della giornata, ma attentare i pompieri e’ la
cosa piu’ stupida che io abbia mai visto. I ragazzi con "mentalita’", che il
giorno prima erano a preparare gli striscioni per milan-napoli, erano li’, a
volto coperto, con in tasca bulloni e cocaina, tra reporter con le proprie
telecamere, non fracassate, ma rubate, tra molotov usate per incendiare i
rifiuti, si.. gli inceneritori piu’ inquinanti erano proprio loro, proprio loro
che lottano contro gli inceneritori legali, o quasi. Ho chiesto a qualcuno di
loro, quando cercavano di riprendere fiato, cosa li spingesse a fare quello,
mi han detto che "la mentalita’ ultras e’ contro la polizia", al che ho
domandato, "e la monnezza?", "quella ci sara’ sempre, noi vogliamo solo
uccidere questi bastardi".
Non sono un filo-poliziotto, ma in quel momento non ero nemmeno un ultras.

Ecco cosa diro’ ai miei figli, quando mi chiederanno cosa successe a Napoli quei giorni. 

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